Futuro primitivo

Basta aprire un dizionario.
"Rivoluzione": dal latino tardo revolutio -onis "rivolgimento, ritorno".
L'etimologia ha un valore intrinseco nel definire l'esistente.
La Rivoluzione non è un vaneggiare di magnifiche sorti e progressive di un indefinito futuro. Non è una folle corsa in avanti, verso baratri e abissi. Non è un mero progressismo accelerato all'ennesima potenza.

Rivoluzione significa ritorno.
Rinverdire teorie e pratiche più o meno antiche, ma mai vecchie.
Significa sconfiggere il Male alla radice.
Ritornare a quando la società gerarchica e classista, in cui ancora oggi viviamo, ha preso il via. 
Eravamo cacciatori e raccoglitori. Vivevamo insieme alla Natura, nella Natura.
Poi diventammo sfruttatori: della flora, della fauna, degli altri uomini, della Natura tutta. E così via, per millenni.
Fino ad oggi. 

Il futuro. O sarà primitivo, o non sarà.

"C’è stato un tempo in cui la natura non era un avversario da conquistare, da addomesticare in ciò che è sterile. Ma abbiamo viaggiato ad una velocità accelerata, sollevando raffiche di progresso alle nostre spalle, verso un maggior disincanto, la cui impoverita totalità mette adesso in pericolo sia la vita che la salute."

(John Zerzan)

Piegarsi vuol dire mentire

Mi capitò un libro tra le mani. Trattava di taoismo e di arti marziali, mia antica passione. Mi colpì subito una metafora: bisogna essere come la canna di bambù, che si piega al vento senza mai spezzarsi. Poche pagine dopo vi era un'altra metafora: l'uomo che vuole essere quercia vedrà i suoi rami spezzarsi sotto il peso della neve che cade; l'uomo che saprà essere salice piegherà i suoi rami fino a far cadere la neve in terra.

Entrambe le metafore, in pratica, riprendevano l'antico adagio "meglio piegarsi che spezzarsi". Quel giorno, leggendo quel libro, promisi a me stesso e al mondo che avrei preso la strada opposta, in direzione ostinata e contraria. Mi sarei spezzato, ma non mi sarei piegato. Di fronte al padrone, di fronte alla società, di fronte agli usi e costumi del mio tempo, di fronte alle mode del momento. 
"Meglio spezzarsi che piegarsi", mi ripeto da quel giorno.

Anni dopo, assecondando il più antico dei miei vizi, ovvero la Poesia, mi imbattei in un libro di un tale. Erich Mühsam, questo era il suo nome. Poeta tedesco, secondo le antologie. Poeta libero, mi parve immediatamente. Lessi i versi di una sua poesia, Il Prigioniero. Quei versi, ancora oggi, mi danno ragione:

"Non ho imparato per tutta la mia vita
a piegarmi ad una costrizione estranea.
Adesso mi hanno incarcerato
allontanato da moglie e opera.
Ma anche se mi ammazzano:
Piegarsi vuol dire mentire!"

(E. Mühsam)

Maturazione

Devo, dobbiamo maturare.
L'ennesima ubriacatura elettoralistica ha dimostrato, se mai ve ne fosse ancora bisogno, quanto sia lontana la maturazione dell'Uomo e dell'Umanità. Coloro che hanno la capacità di pensarsi e di agire in maniera autonoma, autogestendosi e auto-organizzandosi, sono troppo pochi. La stragrande maggioranza delle persone non tenta nemmeno di emanciparsi, sfuggendo ai gangli della delega, della rappresentanza, del Potere. 
Non è nemmeno un discorso di classe: Patrizi e Plebe, borghesi e proletari, inclusi ed esclusi, tutti preferiscono delegare a un altro le scelte riguardanti il proprio quartiere, il proprio comune, la propria regione... fino al proprio pianeta. Se dei patrizi, dei borghesi, degli inclusi ci frega il giusto, della Plebe ci interessa molto di più il livello di emancipazione. Anzi no, di maturazione, perché è di questo che stiamo parlando. Secoli, millenni di schiavitù economica, politica, psicologica, fisica, spirituale, hanno rallentato il processo di maturazione di tutti e di ciascuno. 

Ieri si è votato per un referendum sulla diminuzione della rappresentanza e per il governo di alcuni comuni e regioni. Oltre due cittadini su tre si sono recati alle urne. A fare che? Con quale progettualità? Con quale capacità di incidere davvero sulle decisioni che questo o quel eletto prenderanno nei prossimi mesi o anni?
Zero. Il voto, espresso in questi termini e in queste modalità, esprime una potenza pari a zero. Specifico: in questi termini e in queste modalità, perché vorrei sempre evitare di essere affetto da quel "cretinismo astensionista" di cui parlava Camillo Berneri. 

Ieri è stato legittimato, ancora una volta, lo status quo.
Ma siamo troppo immaturi per capirlo.

"Cinquemila anni di esperienza ci dimostrano che non possiamo affidare la gestione delle nostre vite a re, preti, politici, generali, e commissari provinciali.”
(Edward Abbey)

Astensionismo

"Il sistema rappresentativo, ben lungi dall'essere una garanzia per il popolo, crea e garantisce, al contrario, l'esistenza permanente di una aristocrazia governativa contro il popolo stesso ed il suffragio universale è unicamente un mezzo eccellente per opprimere e rovinare un popolo in nome proprio di una pretesa volontà popolare, presa come pretesto, o un gioco di prestigio grazie al quale si nasconde il potere realmente dispotico dello Stato, basato sulla Banca, la Polizia e l'Esercito."
(Michail Bakunin)

"Se votare cambiasse qualcosa, sarebbe illegale."
(E. Goldman)

"La differenza tra una democrazia e una dittatura è che in una democrazia prima voti e poi prendi ordini; in una dittatura non devi perdere tempo a votare."
(C. Bukowski)

"Una massa che deleghi la sua sovranità, cioè la ceda a pochi singoli uomini, vi rinuncia, poiché il volere del popolo non è trasferibile come non lo è il volere del singolo. L'operazione elettorale è nello stesso tempo espressione e annientamento della sovranità della massa."
(R. Michels)

"Le pecore vanno al macello. Non si dicono niente, loro, e niente sperano. Ma almeno non votano per il macellaio che le ucciderà, e per il borghese che le mangerà. Più bestia delle bestie, più pecora delle pecore, l'elettore nomina il proprio carnefice e sceglie il proprio borghese. Ha fatto delle rivoluzioni per conquistarne il diritto..." 
(O. Mirbeau)

"In un regime totalitario la volontà del popolo non conta: ci sono dei manganelli per sistemare tutto. Ma se lo stato non può più fare uso del bastone il popolo può alzare la voce, allora bisogna controllarne il pensiero con la propaganda, fabbricando il consenso e con delle semplificazioni allettanti per ridurlo all'apatia. La comunicazione sta alle democrazie come la violenza sta alle dittature."
(Noam Chomsky)

Eclettismo

Michelangelo fu scultore, pittore, poeta.
Leonardo fu... qualsiasi cosa, praticamente.
Sapere e saper fare: non per questo o quel padrone, ma per l'Umanità.

Vivo nell'epoca della specializzazione.
Il Sistema chiede a ognuno di imparare una sola cosa e di farla bene, benissimo, di più. Le aziende, le fabbriche, persino le scuole e le università, sono strutturate in questo modo. L'eclettismo è sempre mortificato, a meno che non serva a questo o quel padrone: allora la capacità di pensare e fare altro diviene, improvvisamente, utile e meritoria. 
Se chi ti sta sopra ti chiede un guizzo, allora sarai apprezzato. Se avrai un guizzo non richiesto, sarai criticato, frenato, emarginato, forse persino punito.
Il tuo sapere e il tuo saper fare devono essere orientati solo a ciò che serve al Sistema e ai suoi padroni. Nessun'altra possibilità è data.

Ribellarsi a questo infame disegno che imbriglia, che ingabbia coscienze e conoscenze deve essere un imperativo per l'Uomo libero e per l'Umanità Nova. L'eclettismo deve tornare ad essere ciò che fu nel Rinascimento e in altre epoche della storia umana: valore incommensurabile, ideale verso cui tendere, commistione di capacità aventi come fine il miglioramento della vita delle persone e non l'aumento della produttività e della competitività mercantile, la crescita del PIL e altri disumani parametri contemporanei.

"Sviluppa tutta la tua vita in tutte le direzioni, opponi alla ricchezza fittizia dei capitalisti, la ricchezza reale degli individui possessori di intelligenza ed energia." 

(Émile Henry)

Perché non votiamo

"I. Né eletti, né elettori.

Per quanto già molte volte, sia nelle nostre conferenze come sui nostri giornali ed opuscoli, abbiamo fino a sazietà risposto e dimostrato perché noi anarchici non dobbiamo essere né eletti né elettori, pur tuttavia i vecchi pregiudizi che annebbiano la mente di gran parte dei lavoratori, l'arte subdola di cui sono maestri i politicanti di ogni colore, ci mettono sempre nella condizione di dovere difenderci da attacchi, ora apparentemente benevoli, ora addirittura vili e triviali, coi quali lo studio degli illusi o degli intriganti cercano di menomare la propaganda nostra, affinché non sfugga dalla loro tutela il gregge elettorale, di cui essi hanno bisogno per salire le comode e lucrose scale del potere. E lo scopo principale per cui questi uomini tanto si affannano, intrigano, corrompono, intimidiscono è per raggiungere il posto privilegiato di legislatori, mediante il quale essi possono non già rendersi interpreti della volontà di chi li elesse a deputati; ma imporre la propria e incanalare le risorse e le attività di un popolo a loro beneficio e della classe cui appartengono.

Questa è una verità troppo vecchia e resa fin troppo evidente dai fatti di tutti i giorni. Nessuno aspirerebbe al potere se questo non procacciasse dei vantaggi, dei privilegi morali, politici ed economici. Quindi il potere è per sua natura ingiusto e corruttore. Ma oltre a questa elementarissima considerazione che non può sfuggire neppure ai più bonari osservatori, ne dobbiamo fare altre ben più importanti e che sono precisamente quelle che ci fanno essere dei ferventi propagandisti dell'astensionismo nelle elezioni politiche ed amministrative. Il nostro atteggiamento e le ragioni per cui adottiamo questa linea di condotta diversificano assai dagli altri partiti o rivoluzionari o reazionari che accettano l'astensionismo, come ad esempio i mazziniani ed i clericali intransigenti. Noi non siamo astensionisti in forza di qualche pregiudiziale o perché il potere invece di avere una forma democratica repubblicana l'ha borghese e monarchica, oppure perché non è schiettamente clericale o papalina; ma perché noi siamo avversi ad ogni forma di potere costituito, perché ogni potere costituito rappresenta una sopraffazione, una violenza, un'ingiustizia.

Comprendiamo che i mali sociali si eliminano eliminando le cause che li generano, quindi logicamente siamo avversi allo Stato, qualunque sia la sua forma, perché questo rappresenta un tiranno che sta sul collo dei cittadini; un grande parassita dalle mille branche che sa tutto assimilarsi, tutto carpire senza nulla dare. Comprendiamo che accettare per principio che altri pensino per noi, studino per noi, facciano per noi è un condannarci all'inattività, è rinunciare alla nostra indipendenza, è lasciarci atrofizzare lo spirito d'iniziativa sia nel campo del pensiero che dell'azione. Un uomo, un popolo è forte, è capace di sostenere efficacemente la lotta per la vita, ed anzi riesce a trionfare sulle difficoltà che gli si parano innanzi, a misura dello spirito d'indipendenza e d'iniziativa di cui è animato. Invece la tattica elezionistica abitua gli uomini ed i popoli alla passività, tutto si limita a fare la fatica di eleggersi un rappresentante, ad accentrare così in poche mani il potere e quindi l'avvenire di un'intera nazione.

Perciò noi anarchici siamo convinti che la massima indipendenza sia dell'individuo, come di ogni singola collettività umana, sia una condizione indispensabile di rapido progresso e di sviluppo su ogni ramo di attività e una eliminazione di parassitismo e di ogni ingombrante e dannosa burocrazia. Non bisogna metter l'uomo nelle condizioni che possa diventare il padrone dell'altro uomo; non bisogna concedergli né riconcedergli un'autorità, di cui poi tutti debbano sopportare le conseguenze dannose e subire gli errori e le ingiustizie che vengono consumate in nome di un potere da noi stessi eletto. Il potere per sua natura deve sviluppare due grandi mali che paralizzano la vita di un intero popolo, e cioè l'accentramento e la burocrazia. Stabilire che a Roma si debbano discutere, approvare, dare ordini, regolare i rapporti e gli interessi che riguardano collettività che risiedono a Milano, Torino, Palermo, ecc. è quanto di più errato si possa pensare e stabilire. Tutti anche nelle più dolorose circostanze hanno potuto constatare il grande fallimento dello Stato. Infatti questo che viene costituito, secondo i suoi sostenitori, per tutelare con maggiore potenzialità, minor dispendio di forze e unità d'intenti l'interessi delle collettività che deve amministrare, in pratica ha solo saputo meritarsi la critica e l'imprecazione generale, perché invece di scongiurare dei mali, di limitare i danni con pronti provvedimenti, ha dato prova di noncuranza, di una spaventevole lentezza, causata dal suo mostruoso ingranaggio burocratico. Il recente disastro calabro-siculo informi. La logica dei fatti impone dunque di non dover dar mano ad erigere delle istituzioni, il cui esponente rappresenta quanto di male possa colpirci. Ognuno confronti il funzionamento dello Stato, che impone ai suoi rappresentanti ed esecutori l'attesa d'ordini anche nelle circostanze più gravi, col mirabile risultato che sa sempre dare l'iniziativa individuale e collettiva, ed avrà subito una dimostrazione chiara delle verità che noi andiamo da molti anni propagandando e che vengono chiamate utopie, solo perché troppo grandi e perché impongono un mutamento radicale delle attuali condizioni di cose. Tutti si devono convincere che invece dell'inutile e pesante macchina dello Stato, i popoli hanno bisogno per il loro benessere di abbattere tutti gli Stati, siano essi democratici o reazionari, per poter più presto e bene stabilire tra di loro dei rapporti di scambio rapidi, diretti e mutabili a seconda dei bisogni e delle innovazioni che vengono introdotte nelle arti, nelle scienze e nelle industrie.

Lo Stato che in tutti i paesi del mondo non sa far altro che opera paralizzatrice delle individuali energie e il grassatore delle fatiche altrui, deve essere combattuto e non aiutato, deve essere abbattuto e non modificato. Quindi, o lavoratori, quando coloro che ambiscono di diventare i monopolizzatori di tutto, sciorineranno molti sofismi e vi useranno tutte le blandizie che il loro animo d'ipocriti dominatori sa abilmente trovare, ricordatevi che voi non dovete concorrere a dare vita allo Stato; voi non dovete concorrere a nominare gli uomini che lo impersonificheranno; voi se volete far trionfare la libertà e la giustizia non dovete essere né eletti né elettori.


II. Illusioni sulla legislazione sociale

Quei repubblicani, quei socialisti e tutti coloro che nutrono fiducia sulla legislazione sociale, credono di usare contro di noi l'argomento principale quando ci dicono, quando dicono ai lavoratori che è necessario che la classe diseredata abbia in seno al parlamento - istituzione borghese - i suoi diretti rappresentanti, i suoi deputati che portino in quell'ambiente grigio la eco delle proteste e dei dolori dei poveri paria dei campi, delle miniere e delle officine. "Siamo in pochi, questi democratici politicanti dicono, perché non vi è il suffragio universale, arma potente assai temuta dalla borghesia. Aiutateci a conseguire questo diritto per tutti i cittadini, per tutti i lavoratori e noi avremo fatto un gran passo verso l'emancipazione sociale". A parte gli esempi che si potrebbero citare di paesi dove il diritto al voto è più esteso che non in Italia; a parte i risultati incerti che si potrebbero ottenere se tutta la massa acefala potesse ancor più in modo pecorile essere guidata alle urne a compiere l'alto dovere civico!!!; a parte le ragioni d'indole morale dette nel precedente capitolo, vi è da tener conto della resistenza tenace, e nei più dei casi anche violenta, che sa usare ogni singolo privilegiato contro chi vuole strappargli una parte dei privilegi che ha saputo imporre alla grande maggioranza dei produttori con ogni sorta di astuzie e di frodi. Vi è stato un tempo in cui quando l'astuto poliziotto Giolitti amoreggiava coi generali del socialismo italiano - momento di vergognoso amplesso che essi oggi vorrebbero che fosse da tutti dimenticato e che ha provocato persino un segreto convegno a Bardonecchia fra Giolitti ed il futuro ministro Filippo Turati - allora tutti decantavano i trionfi della legislazione sociale ed i 50 milioni (!!) guadagnati dal proletariato nelle sue ultime agitazioni.

Venne la realtà cruda dei fatti a dissipare la vacuità delle parole, gli eccidi proletari imposero silenzio ai politicanti della frazione estrema, i quali di fronte all'indignazione generale dei lavoratori dovettero bruscamente troncare i loro incestuosi amori, seguire la piazza e perdere qualche seggio a Montecitorio. Anche allora, come in altre occasioni, la borghesia che si era seriamente preoccupata della rapidità ed estensione colla quale seppe il proletariato proclamare lo sciopero generale politico, e comprendendo quanto era per lei pericoloso che i lavoratori abbandonassero le vie legali ed incominciassero ad usare l'azione diretta, se la prese coi capi popolo, scagliò contro costoro tutta la sua stampa prezzolata, incitò i locandieri, gli affitta camere, la piccola borghesia, lo stuolo dei servitori delle istituzioni perché facessero vile ed assordante coro contro i lavoratori, perché avevano osato - ahi purtroppo! solo per qualche giorno - di protestare con un po' di energia contro i sistematici assassinii di poveri affamati, di smunte donne e di miseri piccini. Anche quella misera borghesia che si compiace in tempi di bonaccia di farsi chiamare liberale, seppe con eguale veemenza e criteri reazionari condannare l'impulso generoso dei lavoratori, seppe con non minore rabbia fare pressioni contro i duci delle schiere proletarie, contro i politicanti dei partiti popolari, affinché richiamassero i ribelli alla consuetudinaria docilità e alla cieca fiducia nella legislazione sociale.

La borghesia più intelligente comprese che il concedere alla classe sfruttata qualche riconoscimento ufficiale e accettare il principio della legislazione sociale, non costituiva per essa alcun pericolo. Quello che seriamente teme e che vuole con ogni mezzo scongiurare è la sfiducia nei metodi legalitari; non vuole che si dilaghi fra la grande massa lavoratrice la fiducia nell'azione diretta, nell'azione singola, nell'azione prettamente rivoluzionaria, perché assai bene comprende che questa segnerebbe il principio della sua fine. Ecco perché noi anarchici moviamo aspra guerra ai nostri avversari che adescano i lavoratori col miraggio dei grandi (??) benefici della legislazione sociale. I poveri abbrutiti dalle fatiche, dalla miseria e dall'ignoranza ascoltano questi progettisti delle pacifiche conquiste, prendono tutto sul serio, credono che basti stabilire con un articolo di legge un miglioramento qualsiasi perché venga dopo poco attuato; imparano a venerare i loro leggiferatori come gli antichi cristiani veneravano il loro Cristo; ed intanto il tempo scorre ed i senza pane ed i senza tetto continuano la loro parte di docili macchine produttive, seguitando a produrre per altri e lusingandosi sempre di vedere spuntare per opera della legislazione sociale il simbolico e decantato sole... dell'avvenire apportatore di benessere e giustizia per tutti.

Intanto messi su una falsa via iniziano agitazioni sterili, che non danno né possono dare alcun pratico risultato, vanno dietro ora a questo ora a quell'arruffone politicante; chiedono i pochi soldi di aumento di salario, lusingandosi che tale aumento procaccerà loro maggiore benessere, mentre invece non s'accorgono che per la legge ferrea del salario, derivante dall'attuale sistema di economia politica, essi concorrono a far rialzare artifiziosamente il costo generale della vita - a maggiore vantaggio degli sfruttatori - ed essi rimangono sempre dei poveri diseredati, coloro che tutto devono pagare e che per tutti devono soffrire. Fino a tanto che rimarrà saldo come principio la proprietà privata e il salario costituirà la pietra di paragone del compenso del lavoro umano; fino a tanto che i principi della finanza saranno lasciati i padroni delle ricchezze ed i monopolizzatori di tutti i prodotti, saranno pure i trionfatori del potere, gli alleati, i protetti e gli ispiratori dello Stato e della Chiesa, ed ai lavoratori, ad onta delle apparenti concessioni e miglioramenti, rimarrà soltanto quanto loro necessita per non morir di fame. I pingui e tristi eroi dell'oro cedono soltanto quando sono costretti a farlo, e a tutta quella gente che s'illude ed illude di poter armonizzare il capitale col lavoro, non potrebbe danneggiare maggiormente gli interessi dei non abbienti.

Si prova un profondo disgusto a vedere della gente che vorrebbe passare per sincera e per chiaroveggente, dimenticare i punti sostanziali della questione sociale e per amore di un vile seggio nelle amministrazioni pubbliche o al parlamento smorzare ogni ardore giovanile, soffocare ogni impeto generoso, e, per rendersi accetti a tutti gli elettori delle diverse graduazioni politiche e sociali, smussare tutte le angolosità del proprio pensiero, e anzi fare dei veri sforzi per renderlo incomprensibile e accettabile alla massa amorfa, che non sa pensare né vuole fare sforzi per comprendere. E più disgusto suscitano quei giovani, che dicono di appartenere alle file dell'avanguardia del socialismo, quando si vedono prendere parte attiva agli ibridi connubi ed affannarsi per andare alla ricerca di un candidato qualsiasi, perché questi si prenda il disturbo di fare qualche piccola promessa e qualche insignificante dichiarazione di fede incerta. No, in questo caso meglio è trincerarsi nel silenzio, se non si sa o non si vuole risvegliare l'animo sopito del popolo. Se essi non vogliono essere i pionieri di ardenti verità, se non vogliono essere i pugnaci combattenti contro le cattive presenti istituzioni e conto uomini corruttori e corrotti, almeno non partecipino agli intrighi, abbandonino il popolo a se stesso piuttosto che ingannarlo, piuttosto che trascinarlo in vie contorte che lo fanno allontanare dalla soluzione del tormentoso problema sociale. Se invece veramente amano il popolo, se vogliono educarlo, incoraggiarlo e consigliarlo, essi devono rimanere col popolo e fra il popolo. Da questo trarranno sempre novella audacia ed eviteranno così il pericolo di diventare le giudiziose scimmie ammaestrate del baraccone nazionale.


III. Che fare?

Arrivati a questo punto mi pare di sentirmi da ogni parte rivolgere la domanda: Che fare dunque? Io rispondo con una sola parola: la rivoluzione. Questo malessere generale che ormai si acutizza in tutte le classi dei lavoratori - siano essi operai manuali o cultori del genio o del fecondo pensiero - si estende anche nelle altre categorie meno potenti, meno privilegiate, le quali cercano con ogni mezzo di non essere completamente travolte dalla lotta per la vita. Questo disagio quasi generale rappresenta le prime scosse della terra in quel punto dove non si è ancora definitivamente assestata, e l'assestamento verrà dopo una grande scossa, dopo un tremendo terremoto. Quindi anche la natura c'insegna che noi non possiamo mutare radicalmente i rapporti economico-sociali se non compiamo l'atto rivoluzionario, l'atto definitivo che deve completare, anzi attuare, quella rivoluzione che già è avvenuta nel pensiero nostro. Tutto il resto è vana retorica, se non è spudorata menzogna. Il trionfo del quarto d'ora, la soluzione del problema della giornata, il riconoscimento legale dei diritti che altri devono poi concedere; l'attesa del proprio benessere della sapienza, dell'onestà, dall'attività di altri, sono tutti palliativi, tutti ritardi, tutte illusioni, tutte mistificazioni.

La rivoluzione non è un capriccio, non è una degenerazione, non è una malvagità, ma è una necessità. Bisogna che ogni uomo possa assestarsi sulla terra come egli vuole, bisogna che si senta completamente libero nei suoi atti e nel suo pensiero, bisogna che l'individuo non s'imponga alla collettività, come la collettività all'individuo, e ciò non può venire se non col trionfo della grande rivoluzione livellatrice e liberatrice di tutte le ingiustizie, di tutte le miserie e di tutte le schiavitù. Solo allora si verrà stabilendo il vero equilibrio sociale, che darà inizio ad una novella gagliarda vita che sarà veramente vissuta da ogni individuo, perché tutti educati alla scuola dell'operosità e della libera iniziativa.

Come già in altro punto di questo modestissimo lavoro ho detto, saranno gli stessi bisogni che regoleranno i rapporti fra individui, collettività e popoli; saranno i bisogni che regoleranno le attività, le iniziative, la produzione e gli scambi dei prodotti. Però bisogna che anche i rivoluzionari e gli anarchici un po' alla buona, comprendano che la rivoluzione non è la rottura di un vetro, la ribellione sciocca alle guardie in un momento di sbornia, ma è l'azione costante, coscientemente ribelle a tutte le presenti ingiustizie, a tutte le attuali concezioni economiche politiche. Bisogna fare il grande vuoto all'attuale edifizio sociale, sottrargli quanto più sta in noi i difensori ed i coadiuvatori, non bisogna lasciarci assorbire né moralmente né finanziariamente, non bisogna alimentarlo, ma scavargli l'abisso che lo travolga. E voi, o lavoratori di campi e delle officine, voi che pur seminando e mietendo ciò che è il frutto delle fatiche vostre dovete tutto consegnare a chi nulla produce, voi che costruendo macchine, case, mobili, vesti, oggetti di bellezza e d'arte dovete rimanere sempre miseri, sempre schiavi, sempre iloti, comprendeteci una buona volta, ascoltate i nostri consigli, cominciate a scacciare lontani da voi i pastori della Chiesa e dello Stato e lo stuolo dei politicanti, ed unitevi alle nostre falangi ribelli che lottano per il trionfo dell'integrale emancipazione umana, per il trionfo del tanto temuto, calunniato ma pur tanto bello e grande ideale dell'Anarchia."

Pasquale Binazzi, La Spezia, 1909.

Padrone di nulla, servo di nessuno

Una frusta ha bisogno di due cose: una mano che la brandisca e una schiena da colpire.
La catena ha bisogno di due cose: della mano che la impone e della mano che ne è stretta.
Ogni gerarchia è fondata sulla servitù. Ogni servitù è fondata su un padrone e su un servo. Il padrone comanda, il servo obbedisce. Il rapporto tra padrone e servo è fondamentale per l'esistenza di ogni forma di dominio. L'uno legittima l'altro, l'esistenza dell'uno è garanzia dell'esistenza dell'altro.

Chi romperà questo circolo vizioso? Non certo il padrone, che ha tutto da perdere. Allora toccherà solo al servo, che non ha nulla da perdere, se non le sue catene. 
Quando ogni servo disobbedirà e si ribellerà al suo padrone. 
Quando tutti i servi, uniti in un sol pugno, sconfiggeranno i padroni.
Allora vi sarà l'avvento della Libertà.

“Chi, per rimanere padrone di ciò che possiede, deve contare sulla mancanza di volontà di altri, è una cosa fatta da questi altri, così come il padrone è una cosa fatta dal servo. Se venisse meno la sottomissione, il padrone cesserebbe di essere tale.”

(Max Stirner)

Dio è morto? Chi se ne frega!

Dio è morto.
L'annuncio risale a oltre un secolo fa. Gli ultimi cento anni sembrano averlo confermato a più riprese. Se c'è stata Auschwitz, non può esserci dio, potremmo dire parafrasando Primo Levi.

Il problema di quest'epoca balorda e sciatta è che non c'è il cadavere. Il cadavere di dio. Nessuno lo ha visto, fotografato, ripreso, postato su Instagram, twittato su Twitter, condiviso su Facebook. La morte di dio può essere dichiarata anche dalla mente più eccelsa del Ventunesimo secolo, nessuno ci crederebbe senza che non ci sia un gruppo whatsapp che ne possa condividere il cadavere.

Dio è morto, o no? La domanda è tornata prepotente, di pari passo col ritorno dell'integralismo, del bigottismo, del sessismo, del razzismo. Forse perché dio non può che esistere per queste persone, per queste anime schiave amanti delle catene, per queste menti indurite, per queste bocche vomitanti odio.

Io so per certo che dio non esista, ma non perdo un minuto a tentar di convincere chi si è barricato dietro il muro della sua folle fede, che utilizza per discriminare chi crede in altri dei o chi, come il sottoscritto, non crede in alcun dio.
Preferisco dedicare il tempo ad abbattere quel muro, a scardinarlo senza pietà alcuna. E alla domanda se dio è morto, io rispondo scrollando le spalle: chi se ne frega.

"Che cosa è dio per la mente che crede, se non il padrone dei padroni, il re dei re di tutto l'universo? È il prepotente massimo."
(Luigi Fabbri)

Il Limite

La filosofia del Limite.
Così il mio professore del liceo ci introdusse Immanuel Kant.
Il Limite come garanzia di verità, come necessità per la conoscenza, come baluardo per la scienza. Altrimenti è metafisica o, peggio ancora, utopia.

La filosofia del Limite era, ed è ancora, molto interessante. Perché rappresenta - omen nomen - la frontiera da valicare, il muro da abbattere, per scoprire se stessi e il mondo. 
Il Limite serve all'Uomo solo come obiettivo da superare, come affermazione da non accettare, come cancello da divellere.
Chi accetta il Limite, accetta le catene e plaude ai carcerieri. 
Crede di muoversi in libertà, invece è sempre recluso in prigione.

"E’ ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile. Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile, non hanno mai avanzato di un solo passo."
(M. Bakunin)

Uscire dal Bosco

Rivoluzione.
Che bella parola, che splendido atto!
Alcuni obiettano, di fronte alla possibilità di una rivoluzione, la necessità che essa sia nonviolenta.
"Il pacifismo, la nonviolenza, in un mondo costruito sulla violenza, non sono forse un'opzione rivoluzionaria?".
Bisogna intendersi, dunque, al fine di evitare fraintendimenti: se per rivoluzione si intende l'abolizione dello stato di cose presenti, è impossibile farlo in maniera non violenta.
Ed è questa la mia personale posizione.
Se per rivoluzione si intende il tirarsi fuori dallo schifo attuale, essere "altro" dal sistema dominante, allora è possibile la scelta nonviolenta. 
Io non ci credo.

La Negazione dell'esistente deve essere positiva, se non vuole cedere al nichilismo.
Per essere positiva non può limitarsi al fuggire nel bosco, come l'amato Waldganger.
Prima o poi, da quel bosco dovrà uscire. E appiccare il fuoco ovunque.

"In un mondo costruito sulla violenza, si deve essere rivoluzionari, prima di poter essere pacifisti."
(A. J. Muste)

Chella cosa là

Ammazzata.
Dal fratello.
Perché amava un ragazzo che aveva un'unica colpa: non era nato uomo, fisicamente. 

L'importanza degli avverbi. 
Fisicamente era nata donna. Mentalmente non lo era mai stata. Sentimentalmente era legata a una donna. Vivevano insieme, facevano l'amore, chiacchieravano, ridevano, litigavano, tenevano il broncio, strizzavano l'occhio, si addormentavano abbracciati. Come miliardi di coppie: niente di più, niente di meno.

Un transessuale amava una donna: impossibile da accettare, in certi posti e per certa gente. Anzi, per certa schifezza di gente. Per certa immondizia umana.
Ora lo so, arriverà qualche garantista liberal e mi spiegherà che anche l'immondizia ha i suoi diritti. Forse ha ragione, non so. In questo momento penso solo alla frase di un intervistato, che stigmatizzava l'atto omicida del fratello:
"Non è accettabile che un fratello uccida la sorella per questi motivi. Se proprio devi, falle nu paliatone!".

Nu paliatone. Perché se ti innamori di un transessuale non meriti di morire, ma è giusto che almeno ti corcano di mazzate.
A te e pure a isso... A essa... Insomma, a chella cosa là.

La Levatrice

Ogni volta che la cronaca nera mi conficca negli occhi e nella mente efferati episodi di violenza, la reazione immediata è di disgusto, di rabbia. Disgusto e rabbia, insieme, distinti senza mai essere disgiunti. Di fronte alla violenza, specie quella più becera, mossa da istinti bassi e pecorili, non si può provare solo disgusto o solo rabbia. Il primo inchioda il freno, la seconda fa ripartire. In direzione ostinata e contraria.

Ma è possibile una società senza violenza? Il Barbuto di Treviri ci spiegò che la violenza "è la levatrice della storia". Levatrice, non madre. Strumento, non causa. Strumento nelle mani del Potere contro la Plebe e, talvolta, strumento utilizzato dalla Plebe contro il Potere. Mezzo della Società contro l'Individuo e, talvolta, mezzo dell'Individuo contro la Società. Queste, però, sono violenze che hanno un metodo, una logica, un fine. Alcuni possono arrivare a giustificarle, tanti possono giungere a comprenderle pur senza giustificarle.

Ma nei confronti della violenza efferata, bastarda, infame, fine a se stessa, non ci può essere comprensione. Non c'è logica, ragionamento, analisi possibile. Difficile trovar la diagnosi, ancor più impervio il sentiero per la prognosi. 

Allora torniamo alla domanda: è possibile una società senza violenza? 
Mi guardo intorno, mi scruto dentro, e trovo un'unica risposta: no. Non è possibile. In alcuni casi, non è nemmeno auspicabile. Utopia inutile e nociva. La violenza c'è, è inevitabile. E' una costante. Il divenire è conflitto, il Conflitto genera violenza: fisica, psichica, economica, sociale, culturale, religiosa, etnica.

Cosa può fare l'Uomo, allora? Può fare in modo che la Levatrice non diventi mai Madre. Impedire alla violenza di diventare cultura. Combattere la cultura della violenza, il machismo, il classismo, il sessismo, il razzismo, il fascismo, prima ancora della violenza stessa. Organizzare la società in piccoli gruppi, con regole condivise e dal basso, senza autorità e senza gerarchia. Così la violenza non sparirà, ma sarà ridotta al lumicino. 
La violenza comincerà ad essere Eccezione, mentre oggi e da sempre è la Regola.

La negazione di Makhno

"Io nego l’autorità in generale, sono avversario di ogni organizzazione fondata sul centralismo, non riconosco né lo Stato né il suo apparato legislativo, sono nemico convinto della democrazia borghese e del suo parlamentarismo – considerando questa forma sociale un ostacolo alla liberazione dei lavoratori.

In una parola, insorgo nei confronti di ogni regime basato sullo sfruttamento dei lavoratori."

(Nestor Makhno)

Agli spiriti giovani

"Attenti, o giovani spiriti!
La guerra contro l’uomo-individuo fu incominciata da Cristo in nome di Dio, fu sviluppata attraverso la democrazia in nome della società, minaccia di completarsi nel socialismo, in nome dell’umanità.
Se non sapremo distruggere in tempo questi tre assurdi quanto pericolosi fantasmi, l’individuo sarà inesorabilmente perduto.
Bisogna che la rivolta dell’“io” si espanda, si allarghi, si generalizzi!

Noi – i precorritori del tempo – abbiamo già acceso i fari!
Abbiamo acceso le torce del pensiero.
Abbiamo brandito la scure dell’azione.
E abbiamo infranto.
Abbiamo scardinato!
Ma i nostri “delitti” individuali devono essere l’annuncio fatale della grande tempesta sociale.
Quella grande e tremenda tempesta che frantumerà tutti gli edifici delle menzogne convenzionali, che scardinerà i muri di tutte le ipocrisie, che ridurrà il vecchio mondo in un mucchio di macerie e di rovine fumanti!

Perché è da queste macerie di dio, della società, della famiglia e dell’umanità, che potrà nascere rigogliosa e festante la nuova anima umana. Quella nuova anima umana che sulle rovine di tutto un passato canterà la nascita dell’uomo liberato: dell’“io” libero e grande."

(Renzo Novatore - Verso il Nulla creatore)

Sul Vuoto

Il Vuoto. 

L'errore più comune è pensare solo a come riempirlo, invece di accettarlo per quello che è: Negazione. L'Essere umano è spaventato dai NO, vuole comode certezze, affermazioni sicure, cose tangibili. 

Il Vuoto non è tangibile, per le masse beote e pecorili. Esse non riescono a toccarlo, ad assaporarlo, a sentirlo. Per questo ne sono spaventate, anzi terrorizzate. Vivono con lo scopo primario di riempire il vuoto delle loro esistenze perché non sono in grado di gestirlo. 

E come lo riempiono? Come colma il proprio vuoto il popolo bue? Incapace di creare una esistenza da una Negazione, si limita a negare una esistenza in nome di una presunta morale o, peggio ancora, fa appello a fantomatiche tradizioni. Non avendo idee e valori nuovi, una umanità nova per cui combattere, riesce soltanto ad avere qualcosa contro cui imbracciare le sue spuntate, vetuste e anacronistiche armi. 

Tutto questo ha un solo risvolto positivo: la lotta, il Conflitto. In assenza di ciò, non esisterebbe Vita. 

"Finché non trovi qualcosa per cui lottare ti accontenti di qualcosa contro cui lottare." 
(Chuck Palahniuk, Soffocare)

Onda

 In ogni lotta, sociale, politica o culturale, è necessaria l'armoniosa fusione di gentilezza e fermezza.

A volte prevale la prima, a volte la seconda, in una successione dinamica simile a un'onda.


Sia tu un onda.

Sia tu quell'onda.

Non temere gli scogli.

Anzi, fai in modo che siano gli scogli a temere te.